SI PUÒ DARE AL FIGLIO IL COGNOME MATERNO?
La questione, da tempo dibattuta in Italia, è stata rimessa al vaglio delle sezioni unite della cassazione. Cassazione civile 22 settembre 2008, n. 23934 ha pronunciato l’ordinanza di rinvio, chiedendo se sia oggi possibile assegnare al figlio il cognome della madre, alla luce della giurisprudenza costituzionale e dell’imminente mutamento delle norme comunitarie. Il quesito suggerisce che occorrerebbe verificare se la norma di sistema, che impone al figlio il cognome paterno, possa essere oggetto di un’interpretazione costituzionalmente orientata ovvero, qualora tale soluzione sia ritenuta esorbitante dai limiti dell’attività interpretativa, se la questione possa essere rimessa alla corte costituzionale.
A parte la risoluzione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa
27 settembre 1978 n. 376 (che invita gli Stati membri a eliminare ogni
discriminazione fondata sul sesso nella scelta del nome della famiglia
e nella trasmissione dei nomi dai genitori ai figli) e le raccomandazioni
del Consiglio d'Europa del 28 aprile 1995 n. 1271 (che chiede agli Stati
membri di adottare misure appropriate per garantire una rigorosa eguaglianza
tra i coniugi nella scelta del nome della famiglia) e 18 marzo 1998, n.
1362 (che, nel reiterare gli inviti precedentemente formulati, chiede
agli Stati membri di indicare entro quale termine adotteranno le misure
antidiscriminatorie), la norma di cui si discute appare contrastante con
l'art. 16, 1 comma lettera g) della convenzione sull’eliminazione
di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a
New York il 18 dicembre 1979, ratificata e resa esecutiva con L. 14 marzo
1958, n. 132, che impegna gli Stati contraenti ad adottare tutte le misure
adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in
tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e,
in particolare, ad assicurare gli stessi diritti personali al marito e
alla moglie, compresa la scelta del cognome.
Della violazione degli articoli 8 e 14 della convenzione europea sui diritti
dell’uomo la Corte di Strasburgo ha discusso in alcuni casi aventi
ad oggetto vicende relative al nome patronimico. In particolare nei casi
Unal Teseli c. Turchia (sentenza 16 febbraio 2005, che ha dichiarato priva
di qualsiasi giustificazione oggettiva e ragionevole, in quanto non necessaria
per soddisfare esigenze di salvaguardia dell'unità familiare, la
norma che imponeva alla donna la perdita del cognome d’origine,
in caso di matrimonio, o che, a seguito di recenti modifiche della legislazione
turca, consente solo l'aggiunta di tale cognome a quello del marito),
Stjerna c. Finlandia (sentenza 24 ottobre 1994, che, pur ammettendo che
decisioni degli Stati membri in ordine al nome possono violare le disposizioni
citate, ha in concreto negato la sussistenza di tale violazione nel rifiuto
di consentire il cambiamento del nome usato da oltre duecento anni dalla
famiglia del richiedente), Bourghatz c. Svizzera (sentenza 24 gennaio
1994, che ha dichiarato costituire violazione degli articoli 8 e 14 il
rifiuto dell'autorità svizzera, di consentire al marito di aggiungere
al nome della moglie, scelto dai coniugi come nome della famiglia, anche
il proprio cognome d'origine).
In una fattispecie particolare (si trattava di figli di padre spagnolo
e madre belga, con doppia cittadinanza spagnola e belga, ai quali il Belgio,
stato di residenza, aveva attribuito il cognome paterno che il padre voleva
correggere nel doppio cognome) anche la Corte di Giustizia UE (C-148/02)
è intervenuta ad affermare che il comportamento dello Stato di
residenza che rifiutava la correzione costituisce discriminazione in base
alla nazionalità vietata dagli artt. 12 e 17 del Trattato.
Gli articoli 3 e 23, 4 comma del Patto internazionale sui diritti civili
e politici adottato dall'assemblea generale dell'ONU il 19 dicembre 1966,
ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881, prevedono,
rispettivamente, l’impegno degli Stati a garantire l’eguale
diritti degli uomini e delle donne a godere dei diritti civili e politici
previsti dal Patto e ad adottare le misure per garantire ai coniugi l'eguaglianza
nel rapporto matrimoniale e al momento dello scioglimento di tale rapporto.
Decisioni recenti degli organi di vertice della nostra giurisprudenza
convergono nel sostenere l’equiparazione del nomen materno a quello
paterno nell’onomastica della prole.
Il parere del Consiglio di Stato n. 515 del 2004 contiene un ampio riconoscimento
della facoltà di cambiare il proprio cognome, a fronte della quale
“la sfera di discrezionalità riservata alla Pubblica Amministrazione
deve intendersi circoscritta alla individuazione di puntuali ragioni di
pubblico interesse che giustifichino il sacrificio dell’interesse
privato del soggetto al cambiamento del proprio cognome [, come ad es.
la] lesione del pubblico interesse alla stabilità e certezza degli
elementi identificativi di una persona e del suo status giuridico e sociale
[o, ancora, possibili] confusioni nella imputazione di significativi rapporti
sociali”. Per contro, nella stessa pronuncia i giudici di Palazzo
Spada ritengono meritevoli di apprezzamento motivazioni quali la fruizione
del “nuovo cognome” per ragioni affettive, o per il significato
che quel cognome eventualmente rivesta nella comunità sociale in
cui il richiedente è inserito. Va notato che si tratta di un parere
reso a fronte di una richiesta di sostituzione del cognome materno a quello
paterno; ma queste argomentazioni hanno rilievo a fortiori nell’ipotesi
di mera aggiunta.
Nello stessa direzione si muove la Corte di Cassazione, che nella sentenza
n. 12641 del 2006 invita a imitare le esperienze giuridiche di Paesi a
noi vicini, dalle quali si evince l’esistenza di una tendenza che
abbandona il principio dell’automatica attribuzione del cognome,
optando per una soluzione che, rispettosa dell’uguaglianza dei coniugi,
lasci questi ultimi liberi di scegliere - sia pure entro certi limiti
- il cognome da trasmettere alla prole.
Fondamentale risulta infine l’orientamento del giudice delle leggi.
Nell’ordinanza n. 61 del 2006 la Corte Costituzionale sostiene che
“l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio
di una concezione patriarcale della famiglia [...] e di una tramontata
potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento
e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”.Con
le sentenze n. 348 e 349 del 24 ottobre 2007 la Corte costituzionale ha
affermato che il nuovo testo dell'art. 117 Costituzione, colmando la lacuna
esistente nella disciplina previgente, in conseguenza della quale la violazione
di obblighi internazionali derivanti da norme di natura convenzionale
non contemplate dall'art. 10 Cost. e dall'art. 11 Cost. da parte di leggi
interne comportava l'incostituzionalità delle medesime solo con
riferimento alla violazione diretta di norme costituzionali (348/2007),
ha previsto l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette
norme con la conseguenza che la norma nazionale con le stesse incompatibile
viola per ciò stesso l’art. 117 Costituzione perchè
la norma convenzionale, alla quale la norma costituzionale fa rinvio mobile,
dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente
evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata
norma interposta (348/07).
Con la ratifica del trattato di Lisbona, si dovrebbe poi aprire la strada
all’applicazione diretta delle norme del trattato stesso e di quelle
alle quali il trattato fa rinvio e al controllo di costituzionalità
che, anche nei rapporti tra diritto interno e diritto comunitario non
può essere escluso:
a) quando la legge interna è diretta ad impedire o pregiudicare
la perdurante osservanza dei trattati della comunità in relazione
al sistema o al nucleo essenziale dei suoi principi;
b) quando venga in rilievo il limite del rispetto dei principi fondamentali
dell'ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona;
c) quando si ravvisa un contrasto fra norma interna e direttiva comunitaria
non. dotata di efficacia diretta (Corte Cost., 13 luglio 2007, n. 284).
Con l'ordinanza n. 176 del 1988 la Corte Costituzionale aveva affermato
che sarebbe possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione
della coscienza sociale, sostituire la regola vigente in ordine alla determinazione
del nome distintivo dei membri della famiglia costituita dal matrimonio
con un criterio diverso, più rispettoso dell'autonomia dei coniugi,
il quale concilii i due principi sanciti dall'art. 29 Cost., anzichè
avvalersi dell'autorizzazione a limitare l’uno in funzione dell'altro.
Con la sentenza n. 61 del 2006, inoltre, la Corte ha ribadito, ancora
più nettamente, che l’attuale sistema di attribuzione del
cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia,
la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistica,
e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con
i principi dell'ordinamento e con il valore costituzionale dell'eguaglianza
tra uomo e donna. In entrambi i casi la Corte ha implicitamente sollecitato
un intervento del legislatore che, pur avendo affrontato il tema da ormai
quasi un trentennio non è ancora pervenuto a soluzioni concrete.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con decisione del 25 gennaio
1999, n. 63, ha ritenuto illegittimo il rifiuto dell’autorità
amministrativa di consentire l’aggiunta del cognome materno a quello
paterno, in caso di consenso di entrambi i genitori e di uso di tale cognome
nel contesto familiare, scolastico e sociale, anche tenendo conto dell'evoluzione
della coscienza sociale e del contesto europeo, e, con parere del 17 marzo
2004, n. 515, reso nell’ambito di un procedimento iniziato con ricorso
straordinario al Capo dello Stato, ha ritenuto fondata la richiesta al
Ministro dell'interno, concordemente formulata dai genitori, per il cambiamento
del cognome del figlio legittimo con l'attribuzione del cognome materno,
motivata con ragioni di riconoscenza nei confronti del nonno materno,
ritenendo non irrinunciabile il diritto al cognome paterno e non condivisibile
la motivazione secondo la quale la sostituzione del cognome comprometterebbe
lo status di figlio legittimo e i valori della famiglia fondata sul matrimonio..